Un diario lungo quarantanni – 1978

È una questione privata, un amalgama di passione e cuore, fotografie e mozziconi di carta scritti, mescolati insieme raccontano un anno, il 1978, che è stato il reale punto di partenza per la mia vita da fotografo. L’ho raccontato tante volte, presentandomi a allievi, conferenze e in occasioni pubbliche e personali. Ora è giunto il momento di dare una semplice occhiata. L’antefatto è recente: chiudendo la casa dove sono cresciuto per trentacinque anni della mia vita, ho trovato in garage, come spesso accade, una serie di scatole di cartone. Erano posizionate tra le annate di “Progresso Fotografico”,  fanzines di musica e un armamentario di riviste, ritagli e carta assortita accumulate in un’altra era. L’istinto iniziale è stato quello di cambiare loro i contenitori, erano stati invasi dall’umidità e in anni recenti dall’acqua, senza fare nessuna incursione in materiale vecchio e dimenticato. A una prima occhiata sono risultati essere negativi e provini in carta di matrimoni. Foto, commento musicale e altro…..continuateTrasportati nel mio studio attuale, hanno dormito un paio di mesi senza essere toccati, poi su invito della direzione femminile ed esigenze di spazio, ho preso l’impegno di guardare con maggior attenzione il materiale prima di deciderne la sorte. Ho rimandato, per pigrizia e anche con un leggero fastidio, l’eventualità di rimettere le mani in memorie lontane. L’intenzione era seppellire anche questi reperti nel mio capiente e disordinato archivio fotografico, sistemato per essere immune da ritorni a rimembrare, persone e fatti di ere lontane.

Dalla finestra della camera 1977
Giardino con falce 1977

Fino adesso lo stratagemma ha funzionato. Una settimana fa, ormai in perfetto ritardo sui tempi, ho svagatamente messo le mani e gli occhi sul materiale, risultato, per gran parte, di poco interesse. Meno il fondo di una scatola che mi ha reso inerme davanti ai ricordi in meno di sessanta secondi. Poche buste, malandate con stampe e provini incollati dall’acqua, pezzi di carta, ricordi scritti e un percorso emotivo che si è fatto immediatamente impervio. Ho messo, con molta fretta, tutto in ordine senza ulteriore interesse, ma la lente d’ingrandimento, amica di vecchia data di provini e negativi, mi ha richiamato all’ordine e ho contato i giorni di quel periodo, assaporando il dolce e l’amaro dei ricordi trovati.

Daniele autoritratto 1977

Un’ora non è basta, perché le memorie hanno congiurato per mettermi a disagio. Per gli incroci subdoli del destino, sono riaffiorati frammenti in ordine cronologico del mio primo impiego fotografico. Assunto come fotografo a gennaio 1978 con la paga oraria di lire 1550, secondo un cedolino paga ritrovato, dopo un periodo di prova brevissimo in uno studio fotografico, allora tra i migliori del panorama veronese. Le credenziali presentate erano di prim’ordine: un opuscolo fatto di molte fotografie pubblicitarie realizzate in coppia con Riccardo. Avevamo lavorato per circa sei mesi senza studio, ne luci, inventando immagini nei luoghi più disparati: bar, rive del lago, muri in collina. L’impegno era valso una buona esperienza in esterni, ma una totale mancanza di conoscenza del lavoro in sala di posa. L’esperienza si era conclusa per il dissolvimento dell’agenzia pubblicitaria nell’estate del 1977, così come in quei mesi era finita il mio passatempo come DJ, durato quasi due anni con una delle prime radio libere della città. Così libero da impegni e con l’urgenza di avere soldi per cercare una soluzione alla vita sentimentale, intensa e coinvolgente, che era stata dirottata sul tragico dal castigo imposto dalla famiglia alla mia amata, mandata a meditare sulla sua condotta riprovevole, quella di frequentare un ragazzo poco convenzionale quale ero, in casa di parenti ad est della città. Il contraccolpo di perdere i contatti con la ragazza diletta e segregata ci aveva rovinato l’autunno del 1977. La mia reazione era stata drastica: fine dell’università e la volontà di avere un lavoro per poter vivere insieme, in barba alle decisioni dei suoi famigliari. Avevo messo un annuncio sul giornale cittadino a partire dal 2 gennaio 1978. Tre chiamate e una immediata proposta lavorativa che si era concretizzata nella prima settimana di gennaio. L’entrata in sala di posa era stata convinta, ma ben poca esperienza mi aiutava nel primo lavoro: un catalogo di lampadari da eseguire in mancanza del titolare. Cesare il giovanissimo assistente di studio con eccessivo rispetto si rivolgeva a me dandomi del lei. Ero divertito e imbarazzato e alla fine del primo rullo di diapositive 6×7, lui con grande professionalità mi aveva portato il magazzino da scaricare, lo avevo guardato ridendo, invitandolo a eseguire l’operazione data la mia incapacità. Lo avevo ammonito di trattarmi semplicemente e così era iniziata la nostra collaborazione nella sala di posa con il maggior numero di piante finte mia visto nella mia vita. Erano una selva di plastica che occupava il magazzino, tanto che per esorcizzarne l’uso indiscriminato del titolare, benedivamo il set, pronto per lo scatto, con una fronda che si era staccata dal fusto di plastica e ormai non più assimilabile alle sue sorelle cresciute a dismisura. La nostra maniera di rendere piacevole il lavoro, che in occasione delle ambientazioni dei mobili in stile, il lavoro fotografico principale dello studio, diventavano giornate campali. Le luci erano fisse e costituite soprattutto da spot cinematografici appesi ai tiranti in ferro della struttura. Le pareti finte da addobbare venivano assemblate di volta in volta secondo le esigenze di rappresentare camere da letto piuttosto che tinelli o singoli pezzi. Tiziana e Stefano, miei coetanei erano i responsabili della direzione artistica del lavoro e spesso la semplicità e immediatezza nel lavoro che cercavamo con soluzioni coerenti si perdevano nelle lungaggini del titolare, dedito a soppesare qualsiasi scatto, oltre un normale lasso di tempo. La lentezza era snervante e si riempiva di battute e scherzi di ogni genere. La filodiffusione ci faceva vivere con meno indolenza le attese. Questa canzone è il mio ricordo vivido di quei giorni, soprattutto nella primavera inoltrata. Sotto il segno dei pesci – Antonello Venditti che parlava di “Tutto quel che voglio – pensavo – e’ solamente amore ed unità per noi che meritiamo un’altra vita più giusta e libera se vuoi.”

Il primo mese di lavoro volò, anche se arrivare a destinazione per iniziare la giornata lavorativa era un viaggio con due autobus da prendere in sincronia, non sempre riuscita. Spesso, all’andata, riuscivo ad avere un passaggio dai Portoni Borsari fino a Viale dell’Industria dalla segretaria dello studio, Lina, gentile e una mamma per noi, suoi coetanei, nell’organizzare i pranzi nell’ora di pausa. Spesso mangiavo in fretta per guardare, toccare, provare da vicino gli attrezzi nella sala di posa, soprattutto la Sinar P 13×18 centimetri, regina incontrastata del parco fotografico, affiancata da un’ancella indistruttibile quale la Mamiya RB 67.

Val Galina – Avesa Inverno 1978

Loro erano i nostri strumenti di lavoro fotografico, quasi esclusivamente in interni. Avevo provato anche l’ebbrezza di scattare al tramonto, un paio di ostiche fotografie di macchinari industriali con un parco luci poco adatto allo scopo, comunque ogni giorno l’esperienza aumentava e un entusiasmo montante mi rendeva sempre più partecipe al lavoro del fotografo.  Due autobus, ancora per tornare e un passaggio da Piazza Isolo di un coetaneo, tornitore, sulla via del ritorno in Cinquecento blu munita di un impianto stereo flebile mi riportava verso casa. Vivevo le settimane diviso tra l’entusiasmo d’imparare e fare esperienza e il percepire lontana la ragazza del mio cuore in un tormentato bivio dell’anima.

Lago Garda

Moonlight mile – The Rolling Stones è una delle canzoni tragiche sulla lontananza. Certo io non ero in tour come gli autori del testo e musica, ma il senso della distanza ardua da colmare è tutto in questo brano, tra i miei preferiti di un album fantasmagorico “Sticky Fingers” che ascoltavo qualche anno prima di questi avvenimenti. Mi ha accompagnato in quei mesi di entusiasmo misto alla desolazione di essere distante dalla donna amata, come un lamento sottile e continuo (1)

Le interminabili telefonate nell’ora di pausa, i sotterfugi per incontrarci, la sensazione di vivere per l’ultima volta qualsiasi manifestazione d’amore. La vita passionale, fuori dalla giostra coinvolgente del nuovo lavoro, diventava difficile da gestire, sentendo aumentare la distanza e la frattura diventare continua, senza scampo, era frammisto alla gioia di imparare quello che è stato l’ABC della vita professionale. Arrivò il tempo dei primi confronti professionali con il titolare e in uno studio comandato a rilento, ma con estremo controllo, dopo varie discussioni sullo svolgimento di fotografie assortite, una mia iniziativa fu un motivo di rottura a primavera inoltrata. Ecco le prove del controllo delle luci, due flash da matrimonio in parallelo per un servizio di moda, realizzato a insaputa del titolare, impegnato a perdere le ore del tardo pomeriggio a cercare l’inquadratura perfetta in 13×18 a discapito della nostra baldanza di giovani fotografi, desiderosi di esperienza

Provini set e luci foto moda
Set con finto modello

Il servizio in formato Leica, prodotto dallo studio, in sua assenza, era stato ben accolto dal cliente, ma poco digerito dal nostro fotografo principale che, all’arrivo dal militare di un precedente coetaneo impiegato come fotografo, mi aveva dato il benservito a partire dal mese di luglio. Lasciavo uno studio popolato di piante carnivore, di plastica da spolverare, Zanna Bianca il libro portafortuna, messo nei cassetti e partito per chi sa quale viaggio dimenticato da noi, suoi custodi. I panini del bar al Macello Comunale una delizia per rimanere sconvolti e sazi da metà giornata fino a sera e una serie di amici: Tiziano, Vincenzo, Lina e Cesare che tuttora mi allietano i ricordi. Il diario lungo quarantanni è un ammasso di fotografie, provini e stampe, foglietti scritti a matita, pezzi di parole, impressioni, che viaggiavano in quei mesi di un’era perduta tra l’amaro e dolce vento di cambiamento di un novello venticinquenne. Aprendo le porte che ora sono di fronte a me il vaso di Pandora che contiene memorie fotografiche assortite potrebbe trasformarmi in statua, seduta, di sale. Forse, uno di questi giorni farò il gesto inconsulto di perdermi a osservare il contenuto di qualche faldone. Vi terrò informati sul resto delle vicende accadute nel millenovecentosettantotto.

Le foto sono quelle trovate nella scatola che non ha aggettivi. Le condizioni adeguate al tempo passato in garage.

(1) Il testo di Jagger è semplice e quasi poetico. La sintesi, per me in quei giorni, poi diventati mesi, della lontananza vissuta con poche speranze

Quando il vento soffia impetuoso e la pioggia è gelata
con la testa piena di neve
Alla finestra c’è un volto conosciuto
Non passano lente le notti?
Voci di estranei non dicono nulla alla mia mente
Nient’altro che un altro pazzo pazzo giorno on the road
Vivo solo per stare al tuo fianco
Ma sono giusto a un miglio da te nel chiaro di luna incerto

 

 

4 Replies to “Un diario lungo quarantanni – 1978”

  1. Mi faceva pensare, questa mattina, Tiziana che hai dimenticato di citare due figure basilari nella vita di quello studio fotografico dove hai iniziato la tua carriera:
    1- MARIO. Il mitico corriere che prelevava le lastre da sviluppare per riportarle il giorno dopo. L’attesa di Mario metteva in fibrillazione tutti, bisognava far corrispondere la realizzazione degli scatti previsti con la sua venuta. Pena la perdita di un’ulteriore giorno per vedere i risultati e poter smontare il set.
    2- IL RITOCCATORE. Di cui non ricordo il nome ma del quale ho l’immagine visiva: un omino che passava di lì con periodicità e che – estratto un suo kit magico fatto di boccettine di aniline e pennellini – si metteva su di un tavolo luminoso (che mi pareva fosse all’ingresso dello studio) con minuzia spennellava le lastre 13×18 correggendo le sovraesposizioni che avevano vanificato il colore. Probabilmente era un dopopolavorista che rubava qualche ora alla fotolito dove lavorava per arrotondare.
    Ciao Tanto 🙂
    Stefano
    PS/Mettiamoci d’accordo sul quando così potrai venirci ad incontrare all’Università. Abbiamo delle meraviglie da farti vedere. Son sicuro ti piaceranno

  2. Daniele Tanto Fotografo says: Reply

    Caro Stefano, hai ragione da vendere nel tua analisi delle figure dello studio che ho lasciato dentro la tastiera. Mario era nella prima stesura, poi è rimasto solo nelle intenzioni. L’attesa per i risultati degli scatti del mattino e la sincronia nel preparare le pellicole pronte per il suo arrivo erano una costante dello studio. Era il nume tutelare della riuscita di “ambientazioni” spesso complicate e difficili da realizzare con i mezzi a disposizione. Chissà mai perché non si è pensato di usare qualche dorso Polaroid e rendere meno pesante l’attesa di Mario. Il ritoccatore me lo ricordo come una figura quasi misteriosa. Un giorno per questioni che adesso non ricordo, sono rimasto al tavolo luminoso mentre lavorava e mi sono divertito e ho anche imparato a leggere diversamente le diapositive. Non ricordo il suo nome.
    Sono ben felice di incontrarvi per vedere insieme le immagini di un’era complicata e estremamente entusiasmante per le nostre aspirazioni di operatori nel settore della comunicazione. Ti rammento che ho ancora il catalogo dei mobili bar realizzato da Piombini con il rappresentante di liquori e una modella di Borgo Milano. Qui però ritorniamo in una faccenda privata. Scrivimi a info@laboratoriodelfotografo.it e prendiamo accordi per la rievocazione

  3. Poetiche e suggestive le foto d’inverno in bianco e nero, grazie della condivisione del racconto

    1. Daniele Tanto Fotografo says: Reply

      Alba, le stampe con la neve sono state realizzate nell’orto minuscolo dietro casa durante una nevicata a metà circa degli anni 7o. Il racconto è il primo capitolo di un anno fondamentale nella mia vita, uno di questi giorni verrà completato.

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