Ognuno ha la storia dell’incontro con un fotografo amato, questa è la mia con André Kertész. I miei nonni materni erano abbonati alla rivista “Epoca” e sfogliarla dopo la scuola era il mio passatempo. Arrivavo a casa, ero un bambino di una decina d’anni e mi perdevo a osservare le fotografie dei grandi reporter italiani a cui Arnoldo Mondadori aveva affidato il compito di documentare fotograficamente gli avvenimenti del mondo. Spesso «Epoca» pubblicava diverse serie di inserti fotografici su temi non legati all’attualità che, composti insieme, potevano essere rilegati in volume. Quelli li custodivo in una piccola scansia di un armadio ed erano il mio diletto, anche quelli che erano stati pubblicati anni prima e rigorosamente conservati dai miei nonni. Erano il mio Atlante fotografico. I fotografi, colpevolmente dimenticati dalla critica fotografica italiana, autori dei volumi furono: Mario De Biasi, Walter Bonatti, Walter Mori, Mauro Galligani, Sergio Dal Grande Giorgio Lotti e altri che non ricordo. Ero un piccolo divoratore di immagini così andai a spendere qualche soldo in riviste fotografiche per avere altre informazioni visive, altri orizzonti per conoscere meglio chi produceva quei rettangoli o quadrati pieni d’inchiostro che mi “parlavano” più che le parole. Spesso, i “quaderni di fotografia” erano zeppi di consigli tecnici, recensioni di fotocamere e altre amenità che ben poco m’interessavano, inseguivo le immagini e ricordo molto bene quando vidi le fotografie di Andre Kertesz. Erano singole o due o tre, disperse in qualche articolo poco informato sul fotografo ungherese che ebbe tre vite professionali, ma allora era essenzialmente descritto come “parigino”. Spesso lo confondevo con Cartier-Bresson. Si, nessun problema ad ammettere che scambiavo l’uno per l’altro. Così ritaglia le immagini dell’uno e quelle dell’altro incollandole su due cartoncini, ciascuno con il loro nome, facendo una raccolta per separare e capire i due fotografi, padri, adesso lo posso dire, non allora, della fotografia moderna. La mia passione continuò e uno dei primi libri fotografici che comprai fu quello che la Mondadori, nella serie “I Grandi Fotografi” dedicò a lui. Man mano che uscivano i volumi, confrontando, leggendo e discutendo, capivo lui era uno dei grandi fotografi vissuti nello scorso secolo. Ha fotografato ampiamente per oltre 70 anni, il che lo rende anche uno dei fotografi più prolifici. Non solo ha aiutato a fare da pioniere nel genere della fotografia di strada, ma ha anche avuto un forte impatto su un’intera generazione di fotografi, incluso il grande Henri Cartier-Bresson. Un altro fotografo ungherese, residente a Parigi negli stessi anni, Gyula Halász detto Brassai, ha espresso semplicemente ciò che ha reso Kertesz così grande come fotografo: “André Kertész ha due qualità essenziali per un grande fotografo: un’insaziabile curiosità per il mondo, per le persone e per la vita, e un preciso senso della forma.” Nella mia raccolta di immagini incollate al cartoncino sotto il nome di Andre Kertesz tre erano quelle che mi affascinavano più delle altre, non ne avevo molte a disposizione tra la fine dei Sessanta e i Settanta. Avevo dato loro un nome e qualche commento scritto a penna stilografica le connotavano. Eccole di seguito, con qualche parola di accompagnamento tra quelle che ricordo.
Geometria Durante le riprese in strada, le forme in primo piano e sullo sfondo, si integrano per dare più eleganza, forma e poesia ai soggetti.
Pazienza e casualità La fotografia consiste nel vedere il mondo in un modo speciale. Non solo per guardare le persone, i luoghi e le cose, separatamente, ma per vederle veramente in un’unica dimensione. Fotografare istintivamente.
Semplicità Il vero valore della parola “semplicità” è qualcuno che fa qualcosa per amore di essa, piuttosto che essere un fotografo “complicato” è meglio essere un dilettante in fotografia che è il modo più bello per un individuo di esprimersi.
In realtà, ogni fotografo di strada, con il desiderio di conoscere i maestri deve vedere l’opera di Andre Kertesz